Sandro Boni




Mi chiamo Alessandro Boni, sono nato a Roma ventisette anni fa da madre di origini siciliane e padre artista pescarese. Fin dalle fasce ho convissuto con quadri, tele e colori, ma prima dei 20 anni non ho mai pensato di dipingere, quasi come se considerassi inconsciamente la pittura il dominio esclusivo di mio padre, da rispettare e guardare da lontano. Ma pure perché ho sempre subito in modo totalizzante il fascino misterioso della parola, interessandomi alla poesia. Ed ecco che allora mi sono laureato in lettere (non a caso discutendo una tesi proprio sulla poesia italiana del Novecento) con la speranza folle di diventare insegnante.

Poi successe uno strano fatto: dipinsi per gioco una tela ad un festival universitario e, con soddisfazione pari soltanto allo sgomento, dopo due ore un tizio mi avvicinò per comperarlo offrendomi 100 euro. Questo è pazzo, pensai. Pagare per un quadro dipinto da uno che per la prima volta ha preso un pennello in mano!

Passati circa sei anni, durante i quali ho continuato a dedicarmi alla poesia ignorando completamente la pittura, preso da una sorta di raptus selvaggio, ho cominciato ad imbrattare tele, spinto dall’esigenza di trovare un canale espressivo consono a veicolare quello che con le parole diventava sempre più difficile dire. Quindi, in una certa maniera, credo che i miei quadri siano come delle protesi della poesia, se non addirittura il complemento e l’integrazione dei limiti semantici in cui ogni tanto inciampano -e a volte muoiono- le parole.

Infatti molti sono nati proprio in contemporanea con i versi, divenendone il naturale contrappeso, raccontandone lo stato d’animo.

Anche per questo alcuni supporti sono riciclati, ante di armadi e vetri appartenuti a chissà chi che, carichi della loro storia muta, sono stati abbandonati ai lati d’un cassonetto della spazzatura. Logicamente esistono anche ragioni di ordine economico a monte del fascino che su di me esercita il concetto di riciclo.

L’oggetto privilegiato nella scrittura mi si è imposto prepotentemente anche giocando con i colori: è il tempo, inteso come unità parziale ed irrecuperabile, inesistente quasi, che si fa tratto irripetibile, casuale ed autoironico, mimesi della frammentarietà del reale, e che accennando un risolino sotto i baffi ci ricorda quanto l’esistenza nell’uomo di una componente ludica ed ironica lo possa preservare continuamente dal prendersi troppo sul serio. È la mosca impigliata nella glassa.

Questo non vuol dire bandire o trascurare la serietà ma, all’opposto, comprenderla nella sua tragica complessità e saperne ridere. Sempre.

L’importante è fare, imparare, capire. E testimoniare.  

 

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